A. Zampieri

Libero Docente in Semeiotica Medica – Specialista in Storia della Medicina

Le epidemie cosi dette pestilenziali si sono più volte manifestate nelle varie epoche storiche con  gravi ripercussioni sulla vita e gli eventi delle popolazioni, e ad intervalli regolari hanno accompagnato l’uomo nel suo cammino attraverso i secoli, in genere manifestandosi in seguito a guerre, carestie, straordinarie siccità, talvolta anche a terremoti, piogge intense ed inondazioni.

Anche nel corso del Seicento, più volte epidemie di ogni genere, sia di vera peste che di altri tipi di malattie, si presentarono nelle nostre regioni ed in altre parti d’Europa.  In questo secolo però osserviamo un andamento diverso del contagio che alla presenza semi-endemica dell’età precedente, con episodi ravvicinati spesso ogni quattro o cinque anni (ad esempio Milano ne fu colpita ben 18 volte nel corso del ‘500), passò ad una serie più breve di scoppi violenti, maggiormente distanziati nel tempo, culminanti nelle due epidemie del 1630 e del 1656.

Vediamo brevemente cosa allora accadde.

L. Settala, De Peste, Milano, 1622

Dopo che nel 1603 Londra era stata interessata da una forma di peste che provocò circa 2.000 vittime per settimana e dopo quella che colpì Palermo nel 1624 e Lione del 1628, qui con la morte di 70.000 abitanti, particolarmente grave per la sua estensione ed intensità del morbo fu quella degli anni 1630-33, che fece seguito ad una grande carestia, aggravata dal passaggio e le stragi operate dai vari eserciti in lotta allora nella guerra fra Austria e Francia. Molte città persero anche il 50-60 per cento della popolazione e secondo lo storico Corradi (autore di una monumentale opera su queste malattie) nella sola Italia settentrionale perirono allora non meno di un milione di persone.

G. Ripamonti, De Peste, Milano, 1641

Tantissimi gli scrittori, anche non medici, di questi anni di peste; fra i tanti a Firenze il Marchino, a Bologna il Moratti, a Milano il Ripamonti ed il Tadini, a Venezia il Ruosi, a Pisa i contemporanei Gaudenzio Paganino e Roderico de Castro. Famosa è rimasta poi la bellissima descrizione che ne ha fatta il Manzoni nei Promessi Sposi.

G. Paganino, Della Peste, Firenze, 1631

Oltre al calo demografico delle città e lo spopolamento delle campagne, queste epidemie si ripercossero negativamente sulla economia delle zone colpite. Infatti quando in una città o in una zona dalle autorità  preposte veniva dichiarato lo stato di morbo contagioso, ne seguiva che immediatamente venivano a cessare ogni scambio ed ogni contatto esterno. A seguito del blocco delle attività commerciali e produttive, derivava la disoccupazione del popolo minuto, degli artigiani e dei mercanti e, anche per la grave carestia presente, la morte per fame.

Nel 1630 la peste iniziò nel nord dell’Italia, in Piemonte e in Lombardia, e di qui rapidamente si diffuse ovunque, e non solo da noi. Come cause di questo flagello, furono ritenute essere state le offese arrecate a Dio dai  tanti peccati di cui si era macchiato il genere umano; per altri invece erano incolpati molteplici fenomeni celesti, come le congiunzioni astrali sfavorevoli di Saturno e di Giove nel segno dei Pesci, le eclissi e le comete; altri ancora ritenevano che fossero gli animali immondi (come serpenti e rospi) e le esalazioni putride provenienti dal suolo, ad ammorbare l’aria, rendendola così nociva.

Funestae pestis descriptioVenetiis, 1631

Sintomi di peste erano l’insorgenza di una febbre elevata, delirio, sete ardente, acuti dolori di testa e al torace, vomito, emorragie, polso debole e frequente e poi, segni indubbi, il presentarsi di bubboni all’inguine e alle ascelle, carbonchi  e macule; alta era la contagiosità e la morte sopravveniva in genere dopo  5-7 giorni. Pochissimi quelli che guarivano.

All’inizio dei primi casi del male, sorsero accese discussioni se si trattava di vera peste oppure no; fu proibito addirittura di proferire il vocabolo, poi, di fronte all’aumentare dei casi, si parlò di febbri pestilenziali, ma non di vera peste; alla fine purtroppo ci si arrese all’evidenza dei fatti. Medici anche famosi, per preconcetta opinione, negarono che peste fossero i mali presenti, ma poi anche i più increduli dovettero ammettere la presenza del morbo.

L.A. Muratori, Del governo della peste, Modena, 1714

L. Iacchini, Methodus curandorum febrium, Pisa, 1615

Di fronte al diffondersi del male, le autorità delle varie città colpite emisero allora tutta una serie di provvedimenti, simili dappertutto: mettere guardie ai confini dello stato affinché nessuno potesse passare senza la “bolletta di sanità” attestante il suo stato di salute; proibizione di fiere e mercati; attenta vigilanza alle porte della città; nomina di commissari con incarichi vari di igiene pubblica; istituzione di lazzaretti ove isolare i colpiti; sepoltura dei morti in fosse comuni, coperte poi di calce; bruciatura delle robe infette (sia vestiti, che panni qualsiasi ed anche mobilio); nomina di appositi medici cui affidare la cura dei malati; bando di quarantene per cercare di debellare l’epidemia. Fu disposta anche l’uccisione di tutti i cani e di tenere profumate le stanze.

Ordini per la Quarantena, in Pisa, 1631

Come curiosità, ricordiamo che l’abito consigliato ai medici in questi tragici momenti, nel visitare gli infermi, consisteva in un grande vestito incerato, con in testa un cappello, una maschera al volto munita di occhiali, con una piccola verga in mano con la quale toccare, a debita distanza, i malati infetti, nonché portare dei contravveleni per protezione, come ad esempio delle palle odorose da annusare di volta in volta.

Vennero inoltre istituiti i tribunali di sanità per condannare coloro ritenuti responsabili, in quei terribili momenti, di gravi colpe come non aver obbedito alle disposizioni impartite specie riguardanti la denuncia dei casi di malattia, il commercio di robe infette, il viaggiare senza le necessarie bollette. Sorse allora in diversi luoghi anche la diceria degli “untori”, persone queste scellerate che, al servizio del demonio, andavano ungendo le porte delle case con misteriosi preparati, al fine crudele di diffondere la peste. Di qui  processi, condanne ed orrendi supplizi.

F. Marchini, Belli Divini…, Firenze, 1633

Per la terapia, questa era la più varia: medicamenti principi sempre la teriaca, gli alessifarmaci, la pietra Belzoar, il mitridate, l’orvietano, vari tipi di pillole portentose, l’ingestione di preparati a base di pietre preziose, l’olio contro veleni, la terra sigillata, alcune erbe medicinali (come la tormentilla, la borragine, l’angelica, il cardo mariano); i bubboni poi si dovevano incidere ed anche bruciare. Fra le tante specialità miracolose, vi era quella di pestare insieme arsenico, garofani, zafferano, zenzero e ruta, metterli in un sacchetto da portare sopra la camicia dalla parte del cuore. Era questo un rimedio sicuro per preservarsi dal morbo!

Un cenno anche al ricorso della protezione di santi taumaturghi. Nel terrore della morte, oltre ad invocare la Madonna particolare culto popolare in tempo di peste lo ebbero S.Sebastiano, vissuto nel terzo secolo di questa era, che per essere stato martirizzato con le frecce, furono queste assunte a simbolo del male; altro santo molto famoso fu S. Rocco, vissuto all’inizio del XIV secolo, che si mise al servizio della comunità malata per assistere gli infetti, che guariva dai segni di contagio con l’imposizioni delle mani.

Dopo questo episodio del 1630, che alla fine  interessò tutta l’Italia a più riprese, fino alla sua estinzione che avvenne, a seconda dei luoghi, fra il 1632 ed il 1634, seguirono successivamente una epidemia in Spagna del 1647 ed in particolare per la sua devastazione quella del 1656 in cui il morbo dilagò, gravissimo per intensità e mortalità, oltre che in Liguria, a Napoli e negli Stati della Chiesa. Terribili inoltre gli episodi di Londra nel 1665, di particolare violenza, che decimò gli abitanti (descritta successivamente dal Defoe in un suo famoso romanzo), quella che nel 1679 scoppiò a Vienna, con oltre 100.000 morti, e di qui a Praga, ed infine nel 1690, quando si manifestò in Puglia.

Accanto alla peste, indubbiamente la manifestazione più importante, ricordiamo che in questo secolo si presentarono, anche in modo acuto ed epidemico, altre malattie infettive come la malaria, ben indagata allora da Giovanni Maria Lancisi che richiamò l’attenzione sulle tante zanzare che abbondano nelle paludi ed in queste vide la causa della malattia, pensando che con le loro punture fossero capaci di inoculare nel sangue un “veleno” atto a produrre il male. Durante questo secolo si manifestarono inoltre altre epidemie, come ad esempio di tifo petecchiale, specie in Germania, Francia ed in Italia negli anni 1628-32, di vaiolo, di scarlattina e di difterite.