P. Garzia Responsabile Comunicazione Istituto Auxologico Italiano
E’ noto che l’ipertensione, il più importante fattore della mortalità globale, dipende dall’interazione di fattori ambientali ed ereditabili.
Tuttavia le varianti genetiche finora identificate riescono a spiegare solo l’1-2% della differenza di pressione arteriosa in una popolazione. Ciò indica che ci sono ancora molte varianti da scoprire.
Una nuova variante genetica è stata identificata da un gruppo di ricercatori, coordinati dall’Università di Glasgow e dall’Istituto Auxologico Italiano di Milano. Questa nuova variante genetica si associa a un rischio ridotto di ipertensione e anche a un rischio ridotto di accidenti cardiovascolari. Infatti, ciascuna copia della variazione (ogni persona può averne un massimo di due) è associata a una riduzione del 7.7% di ictus, infarti del miocardio e morti coronariche.
Anna Dominiczak, Regius Professor di Medicina e Direttore del Collegio di Scienze Mediche, Veterinarie e della Vita dell’Università di Glasgow, e uno dei coordinatori del progetto, ha detto: “Noi riteniamo che la variante genica da noi scoperta ci dà nuove informazioni sui meccanismi dell’ipertensione, e ci può aiutare a identificare nuovi obiettivi per nuovi approcci farmacologici”.
La ricerca è stata condotta nell’ambito di una Rete di Eccellenza, il progetto InGenious HyperCare, finanziato dalla Commissione Europea e che vede la collaborazione di 31 gruppi di ricerca in 13 diversi paesi europei.
Per identificare quali varianti genetiche sono in gioco in una malattia comune, quale l’ipertensione, si deve eseguire uno studio di tutto il genoma (“genome-wide association study”), cioè devono essere analizzate più di 500.000 varianti (note come SNP) attraverso tutto lo spettro del genoma umano. Mentre precedenti studi “genome-wide” sulla pressione arteriosa erano stati svolti su popolazioni con un vasto spettro di pressioni arteriose (avevano indagato, cioè, più la genetica della pressione che quella dell’ipertensione), i ricercatori di Glasgow e Milano hanno preferito studiare individui con pressioni arteriose ai due estremi opposti, hanno cioè paragonato individui con ipertensione marcata e individui con pressione completamente normale. Il DNA di questi individui con pressioni ai due estremi è stato fornito dalla collaborazione con l’Università di Lund, in Svezia. Le repliche dei dati iniziali sono state rese possibili da una collaborazione ancora più ampia con altri gruppi di ricerca nel Regno Unito, Italia, Olanda, Svizzera, Irlanda e Stati Uniti: nel complesso, si sono analizzati geneticamente 39.706 individui – 21.466 con ipertensione e 18.240 con pressione normale.
Abbiamo rivolto alcune domande al coordinatore della ricerca, professor Alberto Zanchetti, direttore scientifico dell’Istituto Auxologico Italiano.
Professor Zanchetti, qual è l’aspetto che ritiene più importante della vostra ricerca?
Avere individuato una nuova variante genica che si associa a un rischio ridotto d’ipertensione e – vorrei sottolineare – anche a un rischio ridotto di accidenti cardiovascolari: per una doppia variazione (il massimo possibile) abbiamo trovato una riduzione del 15% di ictus, infarti del miocardio, morti cardiovascolari. E’ importante anche che la variante genica che abbiamo individuato non riguarda, come spesso succede negli studi di genomica, un gene di cui non si conosce la funzione: il gene da noi studiato governa la produzione da parte di una specifica parte del rene di una proteina, che si ritrova nelle urine, l’uromodulina. L’uromodulina è una proteina nota da vari decenni, ma di cui finora non si conosceva la funzione. I nostri dati fanno supporre che l’uromodulina partecipi a un meccanismo renale di regolazione della pressione arteriosa e del rischio cardiovascolare.
Rispetto alle conoscenze precedenti, la ricerca ha contenuti innovativi: quali?
Come alcuni degli studi recenti che hanno individuato altre varianti geniche in rapporto all’ipertensione, anche il nostro studio è stato – come si dice – “genome wide”, cioè ha analizzato più di 500.000 varianti attraverso tutto lo spettro del genoma umano. Gli studi precedenti avevano studiato delle ampie popolazioni di individui con un vasto spettro di pressioni arteriose, avevano cioè indagato più la genetica della pressione che quella dell’ipertensione. A differenza di questi studi il nostro ha preferito valutare individui con pressioni arteriose ai due estremi opposti, cioè una coorte di ipertesi marcati e una di individui del tutto normotesi. Il contrasto così netto ha probabilmente svolto un ruolo fondamentale nel rendere possibile la nostra scoperta. Nell’insieme abbiamo analizzato geneticamente 39.706 individui – 21.466 ipertesi e 18.240 normotesi.

Alberto Zanchetti presso il Centro di Ricerche e Tecnologie Biomediche dell’Istituto Auxologico
Che aspetti pratici, nella diagnosi e nella terapia è possibile prevedere?
Nelle malattie comuni, come è l’ipertensione, le componenti genetiche sono multiple e ciascuna variante contribuisce ad una piccola parte dell’alterazione totale. Non possiamo perciò aspettarci di usare le varianti geniche per predire l’insorgenza di ipertensione o l’insorgenza di complicazioni cardiovascolari. Possiamo e dobbiamo, invece, utilizzare gli studi genetici sopratutto per scoprire nuovi meccanismi funzionali che portano alla malattia e usare questi meccanismi come obiettivi per lo sviluppo di nuovi farmaci.
Quali saranno i passaggi successivi? Lo studio di queste altre varianti genetiche che intervengono nell’ipertensione e nelle altre malattie cardiovascolari, proseguirà?
Il nostro studio di genomica fa sospettare un nuovo ruolo per una vecchia proteina della quale si sapeva troppo poco. L’uromodulina è prodotta specificamente da una parte del rene, responsabile del riassorbimento del sodio, che cioè tende ad aumentare il contenuto di sodio del nostro organismo. I nostri risultati sembrano perciò riannodarsi alla vecchia storia che vuole che il sale sia uno dei principali responsabili dell’ipertensione. Ritengo che i nostri prossimi studi si rivolgeranno a meglio chiarire il ruolo funzionale dell’uromodulina. Quando li avremo compresi potremo anche mirare a trovare farmaci attivi su questo bersaglio.
Chi ha finanziato i vostri studi?
I nostri studi si sono potuti svolgere grazie al finanziamento della Direzione Ricerche della Commissione Europea che ha stanziati 10 milioni di euro per una Rete Europea di Eccellenza coordinata dall’Istituto Auxologico Italiano e da me personalmente. Inoltre, i nostri collaboratori dell’Università di Glasgow hanno avuto altri finanziamenti da parte della British Heart Foundation, il nostro gruppo è stato anche aiutato dalla Regione Lombardia e dal Ministero della Salute, in quanto l’Istituto Auxologico Italiano è un Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico.