F. Monzani Dir. U.O. Geriatria Universitaria A.O.U.P. e Scuola spec. Geriatria, Fac. Medicina e Chirurgia
P. Malacarne Dir. U.O. Anestesia e Rianimazione – P.S. A.O.U.P.
Sul piano epidemiologico 2 fenomeni sono sempre più evidenti:
1) Invecchiamento della popolazione
2) Cronicizzazione di malattie d’organo che in passato portavano rapidamente a morte e progressivo incremento di patologie degenerative del sistema nervoso centrale
Questi fenomeni epidemiologici hanno un corrispettivo clinico ben evidente:
1) riduzione della riserva funzionale, che determina una maggior vulnerabilità a eventi acuti e una minor capacità di recupero
2) insufficienza d’organo (scompenso cardiaco, insufficienza renale, broncopneumopatia cronica ostruttiva, cirrosi epatica, ecc.) con la tipica traiettoria caratterizzata da riacutizzazioni a seguito delle quali non si ritorna mai allo stato funzionale precedente, con spesso associato un quadro di demenza, lentamente ma inesorabilmente evolutiva.
La fragilità è uno stato di fisiologica vulnerabilità legato all’invecchiamento dovuto ad un’alterazione della capacità di riserva omeostatica e ad una ridotta capacità dell’organismo di far fronte a stress come le malattie acute. La fragilità dell’anziano si configura come una sindrome e costituisce un fattore importante di disabilità e eventi avversi. La valutazione della fragilità assume pertanto un carattere di prevenzione e promozione della qualità della vita.
Con il passare del tempo, la condizione di “anziano fragile” favorisce inevitabilmente il sopraggiungere di uno stato di tale gravità funzionale, generalmente conseguenza di un evento acuto per cui è necessario di scegliere tra un incremento sostanziale dell’intensità di cure che porta il malato al ricovero in Terapia Intensiva o un deciso approccio palliativo.

Questa necessità di scelta può essere la conseguenza di una progressione della traiettoria di malattia o del sopraggiungere di un evento acuto, spesso di natura chirurgica (colecistite, perforazione occlusione o ischemia intestinale, frattura di femore da caduta, ecc.).
In questi casi deve essere evitato ogni intervento diagnostico o terapeutico che non aggiunge una significativa probabilità di miglioramento alla prognosi della malattia ed allo stato clinico attuale, ed il cui unico prevedibile risultato è prolungare un declino giudicato ormai irreversibile. Va aggiunto che molto spesso gli interventi futili implicano rischi, sofferenze, effetti dannosi indesiderati, oltre che oneri individuali e sociali. In altre parole è necessario porre il malato, non la malattia, al centro del processo diagnostico e terapeutico.
Quali strumenti abbiamo oggi per poter dare una risposta eticamente e professionalmente corretta quando ci si trova di fronte alla necessità di scegliere tra cure intensive e cure palliative?
1) un primo ed essenziale strumento è la “pianificazione anticipata e condivisa delle cure “(PACC), cui la recente legge 219 “Norme per il consenso informato e per le Disposizioni anticipate di trattamento” del 18-12-2017 ha dato dignità giuridica e che già da anni la letteratura medica ha indicato come utile al fine di evitare che, al momento della scelta, il malato, i suoi familiari e i sanitari si trovino impreparati. E’ indubbio che l’autosufficienza rimane uno dei parametri fondamentali per giudicare il bisogno di assistenza. In tal modo l’obiettivo di cura non è più la malattia con le sue complicanze ma la persona e la sua qualità della vita. L’orientamento verso un percorso di cure palliative deve essere il frutto di un confronto multidisciplinare concordato (ove possibile) con il paziente stesso e con i suoi familiari/rappresentanti legali.
2) in letteratura (a disposizione su richiesta) sono stati pubblicati strumenti validati che, sulla base di dati relativi allo stato evolutivo della/e insufficienza/e d’organo presenti, dello stato funzionale generale del malato, della risposta dalla alla “surprising question” e di altri diversi parametri, definiscono la condizione nella quale l’attivazione delle cure palliative al posto dell’innalzamento dell’intensità delle cure è da prendere in seria considerazione
3) la proposta di andare verso cure intensive deve essere clinicamente appropriata, cioè supportata da una ragionevole attesa che quelle cure intensive modifichino la traiettoria di malattia, e quindi la prognosi infausta a breve termine. In quanto di natura probabilistica, la prognosi comporta sempre un margine di incertezza, che deve essere accettata dal medico, dal malato e dai suoi familiari, ma che non dovrebbe essere un alibi dietro al quale il medico di trincera per iniziare cure intensive che sono in realtà una ostinazione terapeutica.
Questi strumenti possono essere molto utili nella scelta tra cure intensive e cure palliative in caso di peggioramento di tipo “medico” della condizione dell’anziano fragile. Da quanto sopra descritto emerge poi chiaramente che la scelta di un percorso di cure palliative non possa mai essere la semplice conseguenza dell’età anagrafica del paziente ma, piuttosto, della sua età biologica.

Più complessa è certamente la decisione quando ci si trova di fronte a improvvisi eventi acuti di natura chirurgica anche non direttamente correlati alla condizione di fragilità, per i quali sussiste tecnicamente l’indicazione all’intervento in urgenza o urgenza differibile di 24-48 ore ma per i quali, dato il grado avanzato di fragilità, si può ragionevolmente ritenere che il trattamento chirurgico avrà come esito probabile la morte, in tempi comunque brevi (giorni) per l’impossibilità di superare l’insulto chirurgico-anestesiologico o un decorso in Terapia Intensiva nel periodo post-operatorio. In questi casi, fermo restando quanto eventualmente disposto dal malato in sue eventuali D.A.T. formulate nell’ambito di una PACC, occorre che il medico curante, il medico che ha in cura in quel momento il malato se ospedalizzato, il chirurgo e l’anestesista-rianimatore prima di formulare una proposta terapeutica si confrontino sulle opzioni terapeutiche chirurgiche realmente praticabili in quel malato (chirurgia radicale, chirurgia palliativa o minimamente invasiva, eventuale drenaggio percutaneo) o sulla opportunità di un approccio non chirurgico e radicalmente palliativo che, se ben condotto, potrebbe condurre il malato ad una morte meno carica di sofferenza di quanto sia una morte post-chirurgica, in altri termini, ad una migliore qualità del “fine vita”. Occorre che la capacità di comunicazione dei medici con il malato e coi i suoi familiari sia tale da non indurre in modo surrettizio la scelta verso l’opzione chirurgica solo perché “più facilmente percorribile” (se non si opera muore, se vogliamo dare al malato una possibilità su cento di non morire dobbiamo fare l’intervento) o “meno facilmente attaccabile sul paino medico-legale” (abbiamo fatto tutto quello che era possibile per salvarlo). L’opzione terapeutica, anche in situazioni chirurgiche urgenti, dovrà essere commisurata alla appropriatezza clinica (ragionevole probabilità di raggiungere l’obiettivo di modificare realmente la traiettoria di malattia) ed etica (accettazione da parte del malato). Non è facile, ma su questi principi si gioca la nostra deontologia professionale ed il nostro ruolo di garanzia nei confronti dei malati.
L’importanza strategica che una ragionevole e condivisa scelta tra intensificazione delle opzioni terapeutiche ed un percorso di cure palliative riveste nell’iter professionale, oltre che etico, delle future generazioni di medici è sottolineata dalla recente direttiva della Conferenza dei Presidenti dei Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia che raccomanda l’introduzione delle Cure Palliative oltre che della Terapia del Dolore, nel “Cor Curriculum” del Corso di Laurea. Questa direttiva pone fine ad una carenza formativa e didattica che non può più essere tollerata.