G. Zucchelli, R. Moretto, C. Cremolini, A. Falcone U.O. Oncologia Medica II Universitaria A.O.U.P.

Diversamente dalla chemioterapia, che agisce direttamente contro le cellule tumorali, l’immunoterapia stimola il sistema immunitario (SI) affinché sia esso stesso a contrastarle.

La strategia risultata ad oggi più efficace è l’inibizione degli immuno-checkpoint, facenti parte di vie inibitorie di trasduzione del segnale normalmente coinvolte nell’immuno-sorveglianza, ma iperstimolate nelle cellule neoplastiche, che sfuggono così al riconoscimento e alla distruzione da parte del SI. Anticorpi monoclonali quali ad esempio nivolumab e pembrolizumab (antiPD-1: Programmed Death-1), avelumab, atezolizumab e durvalumab (anti PDL-1: Programmed Death Ligand-1), oltre che ipilimumab e tremelimumab (anti CTLA-4: Cytotoxic T-Lymphocyte Antigen-4) hanno come target proprio tali checkpoint. Il blocco dell’interazione recettore/ligando (PD-1/PDL-1; CTLA-4/B7) riduce lo stimolo inibitorio e potenzia la capacità antitumorale dei linfociti T (Figura 1).

Figura 1

Successi clinici ed evidenze di efficacia dell’immunoterapia hanno modificato le prospettive di trattamento di numerose neoplasie, affiancandosi alle strategie sistemiche e locoregionali già disponibili, tanto che il premio Nobel 2018 per la medicina è stato recentemente assegnato proprio a due ricercatori pionieri in tale campo, James P. Allison e Tasuku Honjo. Non tutti i pazienti beneficiano tuttavia di tali trattamenti ed esiste una notevole eterogeneità nel loro impatto sulla storia naturale delle diverse patologie, per cui l’identificazione di fattori predittivi che possano permettere un’accurata selezione dei casi da trattare è una delle priorità della ricerca oncologica. A tale proposito l’instabilità dei microsatelliti, manifestazione di una disfunzione dei meccanismi di riparazione del DNA del mismatch repair (MSI high/dMMR), è al momento oggetto di estremo interesse scientifico. I microsatelliti, corte sequenze geniche ripetute in tandem nel DNA, durante la replicazione sono vulnerabili all’accumulo di mutazioni che fisiologicamente vengono corrette dal sistema del MMR, ma che in caso di suo deficit comportano un fenotipo instabile. Il caratteristico elevato carico mutazionale e neo-antigenico di questi tumori determina una spiccata infiltrazione linfocitaria intra- e peri-tumorale che correla con una maggiore risposta all’immunoterapia. Focalizzandoci sul carcinoma colorettale, le forme MSI high risultano essere circa il 15% del totale dei casi e il 5% di quelli con malattia metastatica, per la stragrande maggioranza sporadiche e solo il 3% correlate alla Sindrome di Lynch. Carcinomi colorettali MSI high sono più frequentemente diagnosticati nel colon di destra e in giovane età, oltre che ad uno stadio più precoce rispetto alle forme stabili, mentre da un punto di vista istologico-molecolare prevalgono l’istotipo mucinoso e la scarsa differenziazione, oltre alla mutazione del gene BRAF. L’instabilità dei microsatelliti influenza positivamente la prognosi negli stadi precoci di malattia, mentre nello stadio metastatico tale vantaggio sembra perdersi in associazione ad una verosimile intrinseca chemio-resistenza, ma, come precedentemente accennato, sono promettenti le prospettive di utilizzo delle  strategie immunoterapiche. In questo setting di malattia avanzata infatti, l’iniziale osservazione di beneficio determinato da farmaci immunoterapici limitatamente ai pazienti con dMMR, ha portato al loro successivo impiego in popolazioni selezionate per tale caratteristica. In particolare, gli studi di fase II KEYNOTE-164 e CheckMate-142 hanno valutato, in pazienti con tumori colorettali MSI high già pretrattati nel setting metastatico, l’efficacia di pembrolizumab e di nivolumab, da solo e in combinazione con ipilimumab. I risultati sono stati estremamente incoraggianti e le sopravvivenze decisamente durature soprattutto considerando la fase avanzata di malattia in cui sono stati testati, a prezzo di un profilo di tossicità favorevole e ben diverso da quello della chemioterapia, poiché caratterizzato principalmente da effetti collaterali dovuti all’iperstimolazione del SI, quali ad esempio colite, rash cutaneo, epatite, tiroidite e più raramente polmonite o ipofisite, per lo più risolvibili con terapia medica corticosteroidea.

Nonostante tali evidenze, diversamente da quanto accade negli Stati Uniti, in Europa e in Italia questi farmaci non sono ancora stati approvati per il trattamento del carcinoma colorettale metastatico con instabilità dei microsatelliti.

La grande sfida della ricerca clinica nel campo della patologia colorettale è dunque oggi quella di estendere la fetta dei pazienti potenzialmente sensibili all’approccio immunoterapico oltre all’esigua (5% circa) percentuale dei tumori MSI high/dMMR. Nelle esperienze precliniche alcuni chemioterapici e farmaci biologici, oltre che trattamenti locoregionali, hanno dimostrato avere effetti immunogenici, tanto che sono in corso numerosi studi di combinazione tra queste diverse strategie terapeutiche e l’immunoterapia. Farmaci citotossici, come ad esempio il 5-fluorouracile e l’oxaliplatino, così come la radioterapia, possono infatti modificare il microambiente tumorale determinando una maggiore infiltrazione linfocitaria tramite l’induzione di morte cellulare e della conseguente presentazione antigenica. Un effetto analogo caratterizza anticorpi monoclonali quali il cetuximab, anti Epidermal Growth Factor Receptor (EGFR), capace di indurre citotossicità cellulare anticorpo dipendente, oltre che il bevacizumab, inibitore del Vascular Endothelial Growth Factor (VEGF). Quest’ultimo incrementa l’adesione dei linfociti alle pareti dei vasi e il loro reclutamento, riduce l’espansione e l’infiltrazione intra-tumorale di cellule inibitorie quali ad esempio i linfociti T-reg, oltre a stimolare la maturazione delle cellule dendritiche.

Proprio sul razionale appena descritto si basa lo studio AtezoTRIBE del GONO (Gruppo Oncologico del Nord Ovest), attualmente attivo presso l’Oncologia Medica dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Pisana (AOUP), il quale valuta l’aggiunta dell’immunoterapico atezolizumab alla tripletta di chemioterapici FOLFOXIRI (5-fluorouracile, oxaliplatino, irinotecan) e al bevacizumab, nel trattamento di prima linea del tumore del colon-retto metastatico (Figura 2).

Figura 2