G. Fontanini Dip. Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare ed Area Critica, Univ. Pisa
Ricordo ancora nitidamente quando, molti anni fa, a circa un anno dalla laurea in medicina, decisi che avrei fatto l’anatomo-patologa: volevo mantenere un contatto con tutta la medicina e soprattutto, in un’epoca in cui cominciava ad essere forte una la spinta verso la settorializzazione delle attività mediche, mi spaventava l’idea di occuparmi di un unico ambito.
L’attrazione verso questa disciplina era quindi legata principalmente alla grande varietà di conoscenze e alla possibilità di articolare e integrare le informazioni clinico-patologiche ottenute nei singoli casi, fossero essi appartenenti ad individui in vita o deceduti.
Amavo anche studiare l’aspetto macroscopico delle varie patologie, le loro caratteristiche istologiche, le similitudini con le forme di oggetti e cose della nostra vita di tutti i giorni, tanto frequenti nelle descrizioni dei vecchi anatomopatologi.
La scelta di frequentare la scuola di Specializzazione in Anatomia Patologica colse tutti coloro che mi erano vicini, genitori inclusi, impreparati: chi era l’anatomopatologo? Cosa faceva? Era un vero medico? Curava i pazienti?
E poi quella sorta di mistero nelle sue attività, il contatto con i cadaveri o con parti di organi che alimentavano un senso di disgusto spesso, anche negli stessi colleghi. Io invece sentivo di aver fatto la scelta giusta!
Ne sono convinta ancora, dopo trentacinque anni di lavoro all’interno del laboratorio di Anatomia Patologica. Nel corso degli anni questo lavoro è cambiato e forse oggi, ancora di più che nel momento in cui decisi di intraprenderlo, è diventato stimolante e degno di attenzione. Molti anni fa, quando iniziai a frequentare la scuola di specializzazione, faticavo molto a spiegare a chi me lo chiedeva, quale fosse la mia attività: cosa fossero gli esami istologici, per che cosa fossero richiesti e soprattutto, in cosa si differenziasse una autopsia fatta dall’anatomopatologo da una fatta dal medico legale.
Oggi fortunatamente le cose sono molto cambiate: l’anatomia patologica è una disciplina importante, poco correlata con la morte e fortemente legata alla vita. E’ fondamentale oggi, soprattutto in alcuni ambiti della medicina, come quello dell’oncologia, conoscere in dettaglio le caratteristiche delle cellule, dei tessuti e/o degli organi che inevitabilmente vengono analizzati in corso o a seguito di interventi chirurgici o in concomitanza di prelievi bioptici o citologici.
E’ anche estremamente importante, oggi, conoscere i dettagli molecolari delle cellule e dei tessuti esaminati, perché è spesso da questa conoscenza che deriva una diversa impostazione terapeutica e una più corretta gestione del paziente.
Nell’era della medicina di precisione il ruolo dell’anatomo-patologo è sempre più rilevante, soprattutto in relazione all’incremento di quei marcatori bio-patologici utili a selezionare la terapia più efficace.
Ma come si ponevano nel passato i medici neo-laureati di fronte alla possibilità di frequentare una scuola di specializzazione in anatomia patologica?
Non è facile rispondere, se non partendo da una esperienza vissuta.
Coloro che decidevano di seguire il percorso formativo nell’ambito dell’anatomia patologica, spesso erano ben orientati con decisioni acquisite durante il corso di studi, con tesi di laurea preparate all’interno degli Istituti di Anatomia Patologica e spesso con all’attivo lunghi periodi di “internato” pre-laurea che conferivano loro una esperienza conoscitiva importante e decisiva per la scelta successiva.
I cambiamenti operati negli anni attraverso le leggi e i decreti che hanno riorganizzato le scuole di specializzazione, soprattutto di area medica, hanno certamente contribuito a modificare i criteri soggettivi di scelta dell’indirizzo formativo post-laurea. Oggi la scelta del neo-laureato è molto meno legata ad una “passione” e molto più dipendente da un “sapere generale”, che in linea di principio rappresenta un criterio di scelta forse più oggettivo, ma indubbiamente meno “dedicato”.
Un tipo di accesso alla formazione post-laurea così regolato può rischiare di penalizzare alcune discipline che, nell’immaginario collettivo dei neo-laureati medici, sono meno “appetibili” anche perché meno conosciute e non adeguatamente pubblicizzate durante il Corso di Laurea. I docenti di Anatomia Patologica dei Corsi di Laurea in Medicina e Chirurgia dovrebbero riuscire a spiegare che cos’è realmente l’anatomia patologica oggi, alla luce delle nuove conoscenze sulla biologia delle varie patologie, oncologiche e non. Le nuove acquisizioni tecnologiche hanno trasformato infatti molti laboratori di anatomia patologica in strutture dove il “vecchio” si integra con il “nuovo”, dove la morfologia, apparentemente più statica, si coniuga con la “dinamicità” delle modificazioni genetiche acquisite e acquisibili via via nel tempo dalle cellule patologiche ed in particolare di quelle neoplastiche.
In questo connubio l’anatomia patologica apparirà quella che realmente è: una disciplina realmente dei “vivi” dove le cellule, singolarmente e nel loro insieme si “muovono”, si “ammalano”, possono essere “curate”, e solo alla fine “muoiono”.
In quest’ottica la scelta formativa post-laurea potrà rappresentare una scelta di vita da non sottovalutare.